Se pensate che la tecnologia sia sinonimo di progresso, guardate quel cartello. “Non c’è posto per le ragazze”: dice così il manifesto invisibile che sta all’ingresso della Silicon Valley.
I colossi tech d’America hanno molte meno donne che uomini in ruoli guida, gli stipendi al femminile sono più bassi, le storie di discriminazione finiscono in tribunale. Quel “non c’è posto per le ragazze”, però, vale tanto nel cuore dell’innovazione d’oltreoceano quanto alla sua periferia, l’Italia. Fa meno rumore, ma il gender gap nelle aziende tech è un problema anche italiano, che si somma al nostro “spread” digitale e tecnologico.
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Le cifre della disparità
Tra le start up innovative italiane, solo un’azienda su dieci è a guida femminile. Una marginalità estrema, anche se si sta riducendo: nell’ottobre 2014 era capeggiato da donne solo il 9,17%. Sei mesi dopo, il 12,4%, cioè 398 su 3200. Poche e piccole, ma in aumento, queste start up “femmine” nascono soprattutto nel Nord Ovest (30,2%) e in particolare a Milano. Hanno pochi addetti e budget ridotti (il 95% ha un capitale sociale che non supera i 50mila euro). Il tasso di femminilizzazione delle start up innovative decresce con il crescere del valore di capitale: tocca lo zero per capitali superiori ai 500mila euro. Di queste imprese, documenta Unioncamere, solo alcune sono a vocazione tech: un 21% che si interessa di produzione software e consulenza informatica, un 19,8% che opera nella ricerca scientifica e sviluppo, il 10,6% nei servizi informativi (Ict). Estendendo l’analisi alle aziende tech in generale, la Camera di commercio di MIlano ha scoperto che più sono tecnologicamente avanzate, meno le donne sono protagoniste: le high tech sono femminili per l’11,7%, quelle mediamente tech per il 10,3%, quelle a basso contenuto tech sono invece il 23,1%.
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Meno assunte
E’ più facile insomma che le donne guidino un’azienda tessile o agroalimentare, piuttosto che facciano impresa con computer e affini. Anche sul fronte assunzioni, l’insidia del gender gap è dietro l’angolo. Nelle aziende Ict, il 79,5% di assunzioni previste non risulta condizionato da preferenze di genere. Ma poi, per fabbricare pc, fornire servizi informatici e delle telecomunicazioni, quel 20,5% restante è spartito in modo ineguale tra le donne (il 7,8%) e gli uomini (il 12,8%). E le proporzioni cambiano in base al tipo di ruoli e alla qualità delle competenze. Nella segnalazione del genere ritenuto più adatto, per ruoli di elevata specializzazione è femmina solo l’1,6% a fronte del 10,6% dei maschi.
Situazione che si ribalta nei ruoli esecutivi d’ufficio: come impiegato o segretario c’è una preferenza del 20% per le donne a fronte dell’8% di uomini (fonte: Unioncamere-ministero del Lavoro). “La radice del problema – commenta la sociologa Chiara Saraceno – è anzitutto la scarsità di donne nelle facoltà scientifiche, oltre al fatto che quando si tratta di fare impresa le femmine hanno in media accesso a meno capitale (proprio o in prestito) rispetto ai maschi”. Il divario di genere è profondo, ma in evoluzione: il World Economic Forum piazza l’Italia giù al 69esimo posto nella classifica sul gender gap, subito dopo il Bangladesh. Ma nel 2011 eravamo 5 scalini più giù, al 74esimo.
La distanza con l’America
Eppure il futuro è lì: mentre la tecnologia penetra sempre più nel tessuto della società dell’informazione, le donne sono ancora molto lontane dalla parità. Una condizione che persino nella “avanzata” San Francisco Bay suscita aspre polemiche: da Apple a Google, passando per Microsoft, i colossi tech che governano la Rete a livello mondiale hanno al vertice solo 1 donna per 4 uomini. “Da noi – racconta Anna Sargian di Girls in Tech – ora c’è più consapevolezza, il divario nel settore è una questione accesa. Però in Italia una donna che sfida il gigante, come ha fatto in America Ellen Pao portando in tribunale Kleiner Perkins, non la vedo. Dovremmo partecipare al cambiamento come fanno le poche che decidono di farsi strada con grinta. Il fatto è che c’è anche un problema di background: troppe poche ragazze studiano materie scientifiche e tecnologiche. Sono ancora viste come cose da maschi. Quando smetteremo di lasciare che le carte le dia qualcun altro?”.
Anna Gatti, pavese di nascita e ormai da 15 anni californiana d’adozione, ha ricoperto ruoli di responsabilità a Google, Youtube, Skype; poi si è messa in proprio lanciando due start up. La sua è una storia di frontiera, in Italia non tornerebbe e il mito della Silicon Valley come valle del progresso per lei è ancora vivo. “Se ci sono meno donne ai vertici è anche perché poche studiano materie tech”, sostiene. “Ma almeno a San Francisco la situazione può facilmente ribaltarsi: anche il fatto che del gender gap si discuta, è segno di un cambiamento”. Mai successo di sentirsi tagliata fuori perché donna? Anna ammette: “Quando alla dirigenza ci sono quasi tutti uomini, per chi non lo è, la vita è più dura. Quando rimasi incinta mi capitò un’incomprensione col mio capo di allora: gli diedi la notizia, ed ecco che mi chiese se non fosse meglio rinviare la promozione che aspettavo da un po’. Forse ci eravamo solo capiti male, ho giocato la carta della lucidità e alla fine ho avuto la meglio. Qui sono convinta che, al di là del genere, sarò assunta e avrò successo, oppure no, sulla base di quanto valgo. Non credo che in Italia sia lo stesso. Dove sono nata, il gap di genere si somma alle ineguaglianze di sistema e alla mancanza di meritocrazia: spesso viene premiato chi si conforma. Dove sto ora invece ho avuto spesso la prova che fare strada dipenda dal mio talento, dalle mie capacità”.
Fonte: a cura di FRANCESCA DE BENEDETTI