L’Italia, Paese di bamboccioni, in vetta alle classifiche mondiali per l’età con cui si lascia il focolare domestico, non si smentisce neppure in tema di università: capita sempre più spesso di vedere mamme (ma anche papà) accompagnare i figli all’università per reperire informazioni, andare a colloquio con i professori o svolgere esami. I docenti storcono il naso, ribadendo che «i ragazzi devono fare da soli»; gli psicologi rincarano la dose: «Prendere il loro posto è un atteggiamento sbagliato: deresponsabilizza». E voi ci andreste mai all’università con mamma e papà?
A sollevare il caso è Giovanna Cosenza, docente al corso di Scienze delle Formazione all’Alma Mater di Bologna, che qualche giorno fa nel suo blog Disambiguado scriveva: «Negli ultimi tempi mi accade frequentemente di vedere arrivare a ricevimento studenti accompagnati dai genitori. Oppure di leggere mail di madri e padri che chiedono informazioni su corsi, trasferimenti, piani di studio al posto dei figli. Mi chiedo, è un problema dei ventenni di oggi?».
Di episodi, la professoressa Cosenza, potrebbe citarne tanti. «Ricordo di quella ragazza che voleva cambiare la data della cerimonia di laurea – una data che la segreteria stabilisce dopo un complicato slalom fra scadenze burocratiche, disponibilità di aule, impegni dei docenti – perché la sua famiglia non riusciva ad arrivare a Bologna “proprio quel giorno”. All’inizio mi scrisse lei, salvo poi farmi contattare anche dal padre…». Ci sono poi i ragazzi “scortati” dai genitori, come la studentessa respinta per la quarta volta a un esame, che «venne nel mio studio con la madre, invocando il mio intervento come coordinatrice del corso di laurea contro quel professore che la discriminava, e urlando alla madre di stare zitta quando questa tentò di perorare la causa della figlia. Ma allora – mi chiedo – perché era venuta con la madre?».
Per la Cosenza, però, non è questione di età: bamboccioni a 20 anni, come pure a 40. Il riferimento è al quasi quarantenne che decise di laurearsi dopo quindici anni. Gli mancavano solo due esami e la tesi quando cominciò a lavorare «con soddisfazione, ma si sa come vanno le cose: niente più tempo per studiare. Però ha sempre pagato le tasse, perché alla laurea non ha mai rinunciato». Chi è che parlava? Il padre, che domande! Un padre che aveva deciso di occuparsi in prima persona della laurea del figlio, telefonando mille volte alle segreterie, andando a trovare in studio la Cosenza, concordando con i docenti i programmi dei due esami mancanti… «perché mio figlio non ha tempo, professoressa».
Ormai sono tanti i docenti che hanno vissuto episodi simili e che, in qualche modo, provano a reagire: «Uno studente ha tutti gli strumenti per gestire da solo il rapporto con i docenti e il proprio iter universitario. La presenza del genitore in queste sedi è fuori luogo. E comunque dietro a questi episodi c’è una tendenza: la presenza sempre maggiore dei genitori all’università», racconta Piercesare Secchi, professore di Statistica e direttore del Dipartimento di Matematica al Politecnico di Milano.
Vogliamo poi parlare di tutte quelle mamme e di quei papà che accompagnano i figli ai test d’ingresso, partecipano agli Open day o telefonano agli atenei per chiedere informazioni? Un dato su tutti: il Corriere.it riferisce che al Politecnico di Milano il 70% delle chiamate destinate ai servizi di orientamento arriva da madri e padri. Lo stesso accade in Cattolica, tant’è che quest’anno l’ateneo ha organizzato un Open day ad hoc per mamme e papà. Soluzione già adottata in Bicocca dal 2012, con un appuntamento annuale in cui, al posto di spiegare i corsi di laurea, i docenti lasciano ai genitori lo spazio per esprimere dubbi e paure.
«In tempi di crisi, con un mercato del lavoro incerto, madri e padri hanno bisogno di rassicurazioni. Vogliono sapere quali sono i corsi di laurea più spendibili, capire se l’università serve ancora – spiega la psicologa Elisabetta Camussi, docente in Bicocca e coordinatrice della giornata per i genitori -. Far studiare un figlio è un investimento, perciò la famiglia tende a partecipare sempre di più alla scelta dell’università». Ma a tutto c’è un limite…
La soluzione è unica: bisogna mettere dei paletti. In gergo si chiama «regolazione delle distanze»: «Il genitore non deve sostituirsi al figlio nella decisione del percorso universitario. Va benissimo che si informi, poi però deve mantenere un ruolo di confronto e di ascolto senza prevaricazioni – continua la psicologa Camussi -. Anche prendere il posto dei figli nei colloqui con i docenti o con gli uffici è un atteggiamento disfunzionale che danneggia i ragazzi: invece di aiutarli, li deresponsabilizza».