L’approvazione del comma 566 nella legge di Stabilità (L 190 del 23 dicembre 2014) ha riaperto, a mio avviso in modo sbagliato, il problema del rapporto medico-infermiere nel definire il processo di cura e assistenza nell’interesse del malato.
Secondo le dichiarazioni della senatrice Annalisa Silvestro (Pd), presidente nazionale Ipasvi, il comma 566 avrebbe “finalmente” sancito che «il processo diagnostico-terapeutico è di competenza del medico, mentre quello assistenziale è di competenza dell’infermiere. Si tratta anche – aggiunge – di un’importante occasione per una riorganizzazione del lavoro nelle strutture pubbliche dove il dispiegamento delle potenzialità delle diverse professioni, a cominciare proprio da quella infermieristica, può consentire di recuperare efficienza e appropriatezza nella risposta sociosanitaria».
Dopo anni di dibattito sulla centralità della presa in cura della persona e non della malattia, insomma, come in un gioco dell’oca, si torna indietro al punto di partenza. Al medico il compito di diagnosticare la malattia e definire la terapia farmacologica e/o chirurgica, mentre all’infermiere il compito di organizzare tutte le altre attività che, con un certo arditismo, vengono definite “assistenziali”. Come se tutte queste attività, a partire da quelle di riabilitazione o di alimentazione, non avessero nulla a che vedere con l’attività clinica.
Che l’evoluzione delle conoscenze e in primis della tecnologia, sempre di più comporti, a partire dal medico, la capacità di lavorare in gruppo, in modo da valorizzare tutte le singole competenze è fuori di dubbio. Il problema però, non si risolve separando in due sistemi paralleli l’intervento medico e quello infermieristico ma, al contrario, definendo con chiarezza la responsabilità della regia del processo.
Il rischio della messa in discussione della regia del medico è, in primo luogo, il venir meno della centralità della persona e il suo diritto ad essere curato come malato e non come insieme di malattie e/o problemi. Il paziente deve cioè essere seguito in modo coordinato ed armonico e mai in maniera potenzialmente conflittuale.
Essendo poi che, per legge, l’operazione deve essere fatta “a costo zero”, ovvero senza far «derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica», in un quadro che inevitabilmente vedrà aumenti e diminuzioni in termini di mansioni, vien spontanea la domanda: chi dovrà ‘pagare’ il ‘dispiegamento delle potenzialità delle professioni infermieristiche’? Questa, tra l’altro, è una domanda che, a mio parere, si dovrebbero porre innanzi tutto gli stessi infermieri.
In questo ragionamento non c’è nessuna volontà di difendere rendite di posizione e di potere. Che medici e infermieri abbiano due aree di competenza diverse, con diverse autonomie è oramai assodato, ma la regia e la direzione dei lavori della presa in carico del paziente deve essere del medico.
Autonomia e rispetto reciproco non devono mai voler dire confusione di ruoli o, peggio, perdita del controllo di ciò che è necessario fare per curare e prendersi cura dei malati.
Trovo, infine, strano che la Fnomceo non abbia sentito l’esigenza di mettere in chiaro la preminenza del ruolo del medico a tutela del paziente, ma è difficile per chi scrive ignorare il fatto che nell’emiciclo il senatore Bianco occupi lo scranno vicino alla senatrice Silvestro.
Fonte: IlSole24ore Sanità del 9 gennaio, scritto da Roberto Carlo Rossi (Presidente Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Milano)