I neolaureati che vanno all’estero secondo la 17° indagine Almalaurea

Gli atenei italiani attirano pochi stranieri

Investimento o “fuga” a causa delle difficoltà riscontrate nel nostro Paese?

L’approfondimento, da anni riproposto nei Rapporti ALMALAUREA, è tanto più necessario visto che si tratta di una quota importante del capitale umano formatosi nelle nostre università, oltretutto tendenzialmente in crescita negli ultimi anni, al di là della sua consistenza numerica (peraltro tutt’altro che disprezzabile). Infatti, indipendentemente dalla nazionalità, ad un anno dalla laurea lavora all’estero il 5% di tutti gli occupati post-riforma (il flusso può essere stimato superiore alle 5.500 unità), quota in aumento rispetto allo scorso anno.

Gli indispensabili approfondimenti sono stati compiuti sui laureati magistrali del 2013 intervistati ad un anno dalla laurea. Per valutare ancora meglio l’impatto per il nostro Paese del trasferimento all’estero di una parte di laureati, si è deciso di porre l’attenzione, in particolare, sui soli cittadini italiani.

I laureati ad un anno dal titolo

Ad un anno dal conseguimento del titolo magistrale lavora all’estero il 5% degli occupati (quota sostanzialmente stabile rispetto alla scorsa indagine, ma in tendenziale aumento rispetto alle precedenti rilevazioni).

Interessante rilevare, al riguardo, che quanti decidono di spostarsi all’estero per motivi lavorativi risultano mediamente più brillanti (in particolare in termini di votazione negli esami e regolarità negli studi) rispetto a quanti decidono di rimanere in madrepatria. Infatti, il 57% degli occupati all’estero mostra un punteggio negli esami più elevato rispetto alla media del proprio corso di laurea (la quota è del 51% tra gli occupati in Italia).

Anche in termini di regolarità le differenze sono tutt’altro che trascurabili: l’86% ha conseguito il titolo entro il primo anno fuori corso (contro l’81% rilevato tra i colleghi rimasti in Italia).

Di seguito quindi saranno illustrati i principali risultati osservati sugli occupati all’estero in termini di caratteristiche dell’occupazione.

Risulta difficile un’analisi per gruppi disciplinari, se non per quelli più numerosi: ingegneria (il 21% degli occupati all’estero proviene da questo gruppo), economico-statistico (19%), linguistico (18%) e politico-sociale (11%); gruppi dove, tra l’altro, si confermano le principali tendenze di seguito evidenziate.

tipologia di lavoro per area

 

Da una prima analisi descrittiva è emerso che i laureati magistrali italiani che lavorano all’estero provengono per la maggior parte da famiglie economicamente favorite, risiedono e hanno studiato al Nord e già durante l’università hanno avuto esperienze di studio al di fuori del proprio Paese.

Ad un anno dalla laurea, ha un lavoro stabile il 38% degli italiani occupati all’estero, oltre 4 punti percentuali in più rispetto al complesso dei magistrali italiani occupati in patria. Questo è il risultato dell’effetto combinato di una minor diffusione, all’estero, del lavoro autonomo (3,5% contro il 9 degli occupati in Italia) e di una maggior presenza di contratti a tempo indeterminato (35% contro il 24%). Molto diffusi anche i contratti non standard, che riguardano il 37,5% degli occupati all’estero contro il 24% di quelli in Italia.

Le differenze tra genere

Le differenze di genere evidenziate per i lavoratori in Italia, sono confermate anche per i laureati occupati all’estero: la stabilità, infatti, riguarda in misura assai più consistente gli uomini delle loro colleghe, anche se ciò è in parte legato al tipo di professione svolta.

Quasi i tre quarti dei laureati magistrali italiani occupati all’estero è impiegato nel settore dei servizi; in particolare, si concentrano nei rami istruzione e ricerca e commercio (18%, in entrambi i casi) ma anche nelle consulenze varie (8%).

Le retribuzioni medie mensili sono notevolmente superiori a quelle degli occupati in Italia: i magistrali trasferitisi all’estero guadagnano, ad un anno, 1.480 euro contro 1.040 dei colleghi rimasti in madrepatria. È qui il caso di ricordare solo brevemente che la retribuzione dichiarata dagli occupati oltralpe è anche funzione del costo della vita del Paese estero scelto.

Il differenziale a favore degli uomini permane, tanto in Italia quanto all’estero; anche se si considerano solo coloro che lavorano a tempo pieno e hanno iniziato l’attuale attività lavorativa dopo la laurea, gli uomini guadagnano in media 1.799 euro netti al mese, contro i 1.394 delle loro colleghe.

guadagno mensile

 

Il titolo acquisito in Italia risulta leggermente più efficace in territorio straniero; è infatti efficace per 49,5 laureati magistrali su cento che lavorano all’estero (è del 45,5% tra quanti sono rimasti in patria). Più nel dettaglio, analizzando separatamente le variabili che compongono l’indice si nota che il 44% di coloro che lavorano all’estero utilizzano le competenze acquisite durante gli studi in misura elevata, 4 punti percentuali in più rispetto ai colleghi italiani. Ancora, per il 20% degli occupati oltre confine (e il 18% di chi è rimasto in madrepatria) la laurea risulta richiesta per legge, per il 24% degli occupati all’estero non è richiesta per legge ma risulta necessaria per il lavoro svolto (è il 22% per gli occupati in Italia).

Le indagini sperimentali

Da un’indagine sperimentale condotta nel corso della precedente rilevazione sui laureati magistrali del 2008 intervistati a cinque anni dal conseguimento del titolo, sono emerse alcune considerazioni interessanti riguardanti le motivazioni del trasferimento all’estero: il 38% dei laureati ha dichiarato di essersi trasferito all’estero per mancanza di opportunità di lavoro adeguate in Italia, cui si aggiunge un ulteriore 24,5% che ha lasciato il nostro Paese avendo ricevuto un’offerta di lavoro interessante da parte di un’azienda che ha sede all’estero (interessante soprattutto in termini di retribuzioni, prospettive di carriera e competenze – tecniche o trasversali- meglio valorizzate).

Per completare il quadro, il 16% ha dichiarato invece di aver svolto un’esperienza di studio all’estero (Erasmus o simile, preparazione della tesi, formazione post-laurea, ecc.) e di essere rimasto o tornato per motivi di lavoro; ciò conferma che mobilità richiama mobilità, ovvero maturare esperienze lontano dai propri luoghi di origine favorisce una maggiore disponibilità a spostarsi, anche al di fuori del proprio Paese. Un ulteriore 14% si è trasferito per motivi personali o familiari; infine, chi si è trasferito su richiesta dell’azienda presso cui stava lavorando in Italia ammonta al 7%.

È stato inoltre chiesto di esprimere un giudizio sull’ipotesi di rientro in Italia: complessivamente, il 42% ha dichiarato che questo sarà molto improbabile, quanto meno nell’arco dei prossimi 5 anni.

Di contro, solo l’11% è decisamente ottimista, ritenendo il rientro nel nostro Paese molto probabile; i restanti si dividono tra chi lo ritiene poco probabile (28,5%) e chi non è in grado di sbilanciarsi (18,5%).