Studiare all’estero un anno delle superiori: un’opportunità ad ostacoli

La fuga dal Bel Paese non riguarda più soltanto i “cervelli”, ovvero coloro che, già laureati, cercano all’estero occasioni di lavoro che qui non trovano. Cominciano adesso a fuggire anche quelli che il “cervello” devono ancora formarselo, ovvero gli studenti della scuola secondaria, che sfruttano la normativa europea sugli scambi culturali e che sempre più spesso si orientano a trascorre l’intero quarto anno, o anche soltanto qualche mese, in un paese straniero. E poi, magari, ci aggiungono anche l’ultimo, in modo da essere già pronti per frequentare università all’estero, un obiettivo alla portata di poche famiglie ma sempre più in voga tra chi ha i mezzi sufficienti.

Si tratta di un fenomeno crescente, basta entrare in un qualsiasi liceo per rendersene conto. Ma i dati ufficiali sono ancora scarni e frutto di indagini campionarie non di una raccolta sistematica di dati: le scuole non devono infatti indicare quanti studenti passano qualche mese o un anno all’estero e in ogni caso il ministero non raccoglie queste statistiche. Ci vengono in aiuto soltanto le indagini dell'”Osservatorio nazionale sull’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca”, creato dalla Fondazione Intercultura e dalla Fondazione Telecom. In Italia, secondo l’Osservatorio, negli ultimi tre anni c’è stata una crescita boom del 55 per cento. Gli studenti andati all’estero sono passati dai circa 5000 del 2011 ai circa 7.800 del 2014.

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Le mete preferite sono gli Stati Uniti (58 per cento), l’Australia e l’Inghilterra (entrambe con il 23 per cento del totale). Seguono il Sud America (18 per cento), la Germania, l’Europa del Nord e il Medio Oriente (con il 13 per cento). Intercultura, la onlus attiva nello scambio culturale per studenti della scuola secondaria, mette a disposizione per il 2015-2016 (le domande possono essere presentate fino al 10 novembre del 2014) oltre 300 posti tra Stati Uniti, Australia, Canada, Irlanda e Sud Africa, tra i paesi anglofoni. Non è invece presente da molti anni nella sua programmazione la Gran Bretagna, paese che ormai trae gran parte del suo prodotto interno lordo dall’industria della formazione, ovvero università, corsi d’inglese di vario tipo e di varia durata per stranieri e che mal di adatta a una concezione “no profit” qual è quella sposata da Intercultura. La famiglia ospitante, per Intercultura, deve infatti prestarsi a questa condizione senza chiedere nulla in cambio ma per il solo piacere di avere in casa per un periodo di qualche mese uno studente straniero. Ciò assicurerebbe, secondo l’organizzazione, il giusto approccio verso gli studenti stranieri da parte delle famiglie ospitanti.

Intercultura, in questi ultimi anni, è stata di fatto presa di mira da un numero crescente di studenti, desiderosi di farsi un background culturale in inglese o in una lingua straniera e di allargare lo sguardo fuori dai ristretti confini dell’Italia. Lo scorso anno furono in circa 5.000 a presentare la domanda per soli 1.000 posti. La prevista difficoltà di trovare lavoro un domani, dopo gli studi, e quindi la necessità di conquistare precisi “skill” linguistici data la cronica insufficienza dello studio dell’inglese nelle scuole italiane, spingono molti più giovani di prima a tentare un periodo di studio all’estero, che non sia il solito corso estivo di 15-30 giorni. Di solito l’exchange period cade nel quarto anno del liceo, lontano dagli impegnativi esami di maturità.

Ma Intercultura non riesce ormai a soddisfare tutte le necessità, nonostante il forte aumento di posti messi a disposizione. Restano fuori moltissime richieste. Vista la crescente domanda di periodi di studi all’estero, sono nate negli anni più recenti altre società, private e dunque tutte a fini di lucro, che fanno per mestiere quello di organizzare per gli studenti il periodo di studi secondari all’estero. Dentro c’è di tutto: apprezzabili professionisti, cresciuti nel corso degli anni fino a diventare onesti interlocutori delle famiglie, ma anche diversi avventurieri capaci di spillare dalle tasche dei genitori dei ragazzi mucchi di denari dando come corrispettivo un servizio appena abbozzato o praticamente inesistente. Basta aprire Google e digitare il gruppo di parole “anno all’estero” per veder apparire un’incredibile quantità di siti in cui è praticamente impossibile orientarsi: youabroad.it, ef-italia.it, mbscambi.it, annoallestero.it, wep-italia.org, interstudioviaggi.it, stitravels.com, afsai.it, esl.it, mondoinsieme.it, tanto per citarne alcuni. Di solito questi soggetti hanno la configurazione di agenzie di viaggio: organizzano infatti un “viaggio di studio”, che consiste in un soggiorno presso famiglie o altre strutture ricettive mentre fanno da interlocutori delle scuole estere che mettono a disposizione dei posti per gli “exchange student”. L’alchimia di questa operazione è tutta da verificare e a volte a molte famiglie e studenti italiani resta un amaro in bocca e molte recriminazioni che spesso sfociano in aperte contestazioni o in vere e proprie cause in Tribunale.

Del resto non c’è da stupirsi di questo boom di studi secondari all’estero: è lo stesso ministero dell’Istruzione a incoraggiare questa pratica. Lo ha fatto varie volte nel corso del tempo, ma con la Nota n. 843 del 10 aprile 2013 è stato ancora più esplicito, invitando scuole e studenti a darsi da fare per mettere in piedi periodi di studi all’estero, riconoscendo a questa pratica un alto valore formativo. Ma se le famiglie – spinte dalle difficoltà della situazione economica in Italia e consce dell’importanza per i loro figli di padroneggiare l’inglese in modo non scolastico – sembrano sempre più inclini, anche sostenendo grossi sacrifici economici, a far trascorrere da qualche mese a un anno all’estero ai propri figli, molto meno interessate sembrano le scuole, non di rado infastidite da quella che considerano un’inopportuna interruzione del normale ciclo di studi. Secondo i dati dell’Osservatorio, soltanto il 46 per cento delle scuole hanno studenti in uscita, le altre – la maggior parte – non le hanno proprio.

Ancora meno istituti secondari, inoltre, hanno già inserito nel proprio Pof (Piano d’offerta formativa) un periodo di studi all’estero e tengono contatti con le scuole straniere per la migliore riuscita del periodo, rendendosi parti attive nella ricerca e selezione delle famiglie, un punto assai delicato perché un errore qui può rendere spiacevole al ragazzo questa esperienza. Quando questo accade, lo studente non è più solo di fronte a questa esperienza e ha nella propria scuola un punto di riferimento per tutto ciò che potrebbe non funzionare. Mentre quando la scuola non s’interessa, e cioè nella maggior parte dei casi, l’unico interlocutore rimane l’organizzazione privata (quando non si riesce a farsi ammettere da Intercultura che almeno dà un minimo di garanzie), e nessuno garantisce per quest’ultima. Diverso sarebbe se lo Stato italiano obbligasse tutte le scuole secondarie a inserire nel Pof il periodo all’estero. Del resto, se lo Stato è davvero convinto della positività di questa esperienza all’estero (e come potrebbe non esserlo in un mondo sempre più globalizzato?), non si comprende per quale motivo lasci invece la libertà di scelta di organizzazione alle singole scuole, che quindi diventano arbitre della situazione, spesso scoraggiando di fatto (anche se non possono impedirle) le esperienze all’estero, schiave di una malintesa autoctonia culturale. Del resto, quanti sono i professori che fanno analoghe esperienze di aggiornamento all’estero, pur incoraggiate dallo stesso ministero della Pubblica istruzione e inserite in un preciso programma europeo? Praticamente zero.

Così la precoce esperienza all’estero di uno studente italiano nella scuola secondaria diventa perlopiù una scelta individuale, non di rado condotto con il parere contrario dello stesso istituto, con tutti i rischi che ciò comporta soprattutto quando le cose non vanno per il verso giusto. È incredibile che il ministero dell’Istruzione, che pur incita scuole e studenti a organizzare un’esperienza all’estero, non si faccia quantomeno promotore di creare un elenco delle agenzie che svolgono questa attività, così da poter predisporre un’utile funzione di controllo o anche soltanto di moral suasion. Tantopiù che diversi, fra gli studenti che vanno all’estero, sono ancora minorenni e meriterebbero dunque una speciale tutela. Ma, secondo lo Stato italiano, vale ancora la massima alla rovescio: “armiamoci e partite”.

Oltre al possibile danno durante i mesi di studio all’estero, al ritorno gli studenti possono trovarsi un’altra tegola in testa. Proprio le scuole che meno credono in questa esperienza, e dunque non l’hanno organizzata loro stesse, saranno quelle che pretenderanno di più dagli studenti, obbligandoli a estenuanti tour de force di interrogazioni al loro rientro, se il periodo non copre l’intero anno. È pur vero che la Circolare del ministero del 2013 ricorda alle scuole che gli studenti non possono essere interrogati su tutto il programma svolto in Italia mentre erano all’estero (dove evidentemente svolgevano altri programmi!) ma è anche vero che resta indeterminata la quantità e la qualità della preparazione richiesta e anche la valutazione di ciò che il ragazzo ha fatto all’estero.

fonte: La Repubblica del 27/10/2014 ; scritto da Adriano Bonafede

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