Sistema “alla francese” al posto del test di ammissione di Medicina: ma quanto è pronta l’Università italiana a importare il modello d’oltralpe? Poco, pochissimo, a sentire i commenti dei vari addetti ai lavori, per i quali nel Belpaese non ci sono le risorse finanziare per adeguarci all’esempio francese, sicuramente più equo, ma altrettanto più dispendioso.
Da quando la ministra Stefania Giannini ha fatto breccia nel muro dei cori del no al test di accesso a Medicina, paventando la possibilità di adottare anche in Italia la struttura della Francia (ingresso libero, primo anno comune agli studi di Medicina, Farmacia e Odontoiatria, quindi l’esame d’ammissione sulle materie appena studiate per passare al secondo anno), gli studenti, dopo la prima esultanza, stanno cominciando ad avere seri dubbi. Primo, si chiedono quanto ci possa essere di sostanziale nelle dichiarazioni del nuovo inquilino di viale Trastevere (è solo una boutade elettorale?); secondo, siamo proprio sicuri di avere tutte le carte in regola per importare, in Italia, il modello francese?
In Francia, in caso di punteggio scarso o non adeguato all’esame di sbarramento del primo anno, la Facoltà indica agli studenti percorsi alternativi (Professioni sanitarie, Biotecnologia, ecc.) sulla base dei risultati dei test, senza così perdere l’anno e i crediti maturati. L’esame si può ripetere solo una volta. Secondo quanto ha riferito a Repubblica.it Francesco Macrì Gerasoli, responsabile delle Urgenze radiologiche presso il Centre Hospitalier Universitaire Caremeau di Nimes, “in Francia i ragazzi sono valutati sulle materie del primo anno, e la formazione delle scuole superiori non incide (a differenza dell’Italia, nrd). Tra l’altro, non ci sono domande di cultura generale, che in Italia hanno invece un peso determinante”. Il modello potrebbe funzionare solo se impostato come in Francia: “Nessun esame orale alla fine dell’anno – spiega Francesco Macrì – ma test anonimi e a risposta multipla corretti tramite lettore magnetico per evitare favoreggiamenti e raccomandazioni”.
E in Italia? Quanto è fattibile trasferire in toto il sistema francese? Poco o per nulla. Spiega Eugenio Gaudio, preside della Facoltà di Farmacia e Medicina della Sapienza, a Repubblica.it: “A Roma ci sono 6 corsi di laurea, con una media di 6 esami il primo anno e 72 professori (due professori a esame, senza contare tutor e assistenti, quindi 12 per ogni corso di laurea). Le aule grandi sono 6 (una per ogni corso di laurea) e 36 aule più piccole per le esercitazioni (6 aule per ogni corso di laurea). Ora, se dovessimo passare al sistema francese, le matricole diventerebbero circa 6 volte più numerose (considerando che quest’anno il rapporto tra posti liberi e iscritti è stato di 1 a 6). Solo a Roma i professori dovrebbero passare da 72 a 432, le aule grandi da 6 a 36, e quelle più piccole da 36 a 216. Possibile? Se il Governo ha soldi da investire in questo progetto, ne saremmo tutti contenti, ma dubito che potrà essere così. Rischiamo, invece, di trovarci di fronte al solito psicodramma post test. Non è possibile che ogni anno vengano attivate nuove modalità di accesso. Studenti e università hanno bisogno di certezze e regolarità”.
Gli fa eco Amedeo Bianco, presidente della Federazione degli Ordini dei Medici: “Prendiamo il caso di Torino. Se adottassimo questo modello, gli studenti passerebbero da 300 a 1800. Dove si farebbero le lezioni? Negli stadi? Su questo è necessario riflettere, prendersi del tempo e trovare strumenti che possano migliorare il sistema. La selezione, per sua natura, è imperfetta e può essere più o meno ingiusta. Questa è la premessa. Ma siamo sicuri che spostare il test al termine del primo anno vada davvero a favore degli studenti? Le nostre università sono pronte? Non credo”.
Che fare, allora? “Si potrebbe valutare l’attitudine dei ragazzi già dal quarto o quinto anno superiore – risponde Maurizio Benato, vice presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici – coinvolgendoli in attività di volontariato presso strutture sanitarie o di cooperazione internazionale, con un giudizio al termine dell’esperienza, oltre a un colloquio psicologico. Il sistema può essere migliorato”.
Andrea Silenti, vice presidente dell’Associazione Italiana Giovani Medici pone, invece, un altro problema: quanti studenti respinti alla fine del primo anno potrebbero fare ricorso? E quanti vincerebbero? Considerando le migliaia dell’ultimo anno, non sarebbero pochi. Silenti sostiene che “è difficile capire se il sistema possa funzionare anche da noi. Senza una rivisitazione complessiva del sistema universitario italiano, il rischio è di far scontare scelte demagogiche e dettate dall’emotività sulla pelle di studenti e famiglie”. In Francia solo il 15-20% supera il test di ammissione. E il resto che fa?