Una laurea in odontoiatria non garantisce più il lavoro subito. Oggi, a un anno dalla laurea, quasi il 40% dei dentisti è disoccupato o precario contro il 30% dei medici.
Soltanto nell’ultimo anno, il tasso di occupazione è sceso infatti di sette punti percentuali. Mentre nel nostro Paese questi professionisti hanno raggiunto il rapporto di uno ogni mille abitanti, rendendoci il secondo paese in Europa per incidenza, dopo la Grecia. Sono alcuni dati del Secondo Rapporto Eures-Cao (Commissione albo odontoiatri) dedicato a “Le sfide della crisi alla Professione Odontoiatrica, tra qualità delle prestazioni e distorsioni di mercato”, presentato oggi a Roma. Una fotografia scattata a partire da un campione di circa 400 studenti e neolaureati e 30 docenti di 28 corsi di laurea. Tra il 2012 e il 2013 il tasso di occupazione dei dentisti italiani ad un anno del conseguimento del titolo è passato dal 70% al 63%. Un trend di riduzione confermato anche dai dati degli ultimi 5 anni. Gran parte dei neolaureati – secondo il rapporto – passa per una fase di precarietà o di lavoro nero. Per i giovani dentisti le cose migliorano dopo i tre anni successivi alla laurea, quando la maggioranza lavora.
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Ma resta il problema di un ampio numero di professionisti “maloccupato” a inizio carriera
«Tra chi non trova lavoro dopo la laurea – spiega il presidente Cao Giuseppe Renzo – nei tre anni successivi un buon 15% trova occupazione, ma in strutture fatiscenti o nei mega centri dove vengono pagati 600 o 800 euro al mese. O sono addirittura pagati in nero».Le retribuzioni, in ogni caso, complessivamente scendono. La paga base dei giovani dentisti ad un anno dalla laurea è di circa mille euro, con una maggiore penalizzazione per le donne: in media 1176 europer i maschi e 867 per le donne. Dopo tre anni la media sale a 1568 euro, mantenendo però lo svantaggio al femminile. Cifre che non corrispondono alle aspettative degli studenti e dei neolaureati. «Anche in questa professione abbiamo ormai la generazione mille euro», ha concluso Renzo ricordando l’importanza di una lotta incisiva all’abusivismo, «fenomeno fortemente presente nel settore e che toglie, futuro ai giovani, inquina la concorrenza e danneggia i cittadini» .
30mila euro spesi dallo Stato italiano per formare ogni laureato e 30mila dalle famiglie
Nessun Corso di Laurea italiano si allinea agli standard europei: il valore più elevato si registra infatti a La Sapienza di Roma (con 57 laureati nell’A.A.2012/2013), seguita da Bari e Milano (49), mentre le più forti criticità si registrano nelle 6 Università che “licenziano” meno di 15 laureati l’anno: Ferrara (14), Foggia (12), Catanzaro e Parma (11), Pisa (10) e Perugia (soltanto 4 laureati nell’A.A. 2012/2013). Visto il costo sostenuto dallo Stato per la formazione universitaria e la difficoltà di mantenere idonei standard qualitativi per tutti i Corsi di Laurea – sostenuta da alcuni testimoni privilegiati intervistati – appare dunque urgente una riflessione sulla sostenibilità economica di un sistema così frammentato.
Il costo medio della formazione universitaria sostenuta dallo Stato Italiano per l’intero percorso formativo di un odontoiatra è stimabile in circa 30 mila euro (24 milioni complessivi per i Corsi di Laurea in Odontoiatria). Il Sole 24 ore stima inoltre una spesa di analoga entità a carico delle famiglie (23 mila euro per la formazione di 6 anni di uno studente universitario in sede – comprensivi di tasse, vitto, alloggio, spostamenti e materiali didattici – e 50 mila per uno studente “fuori sede”), una cifra, questa, che può rappresentare un criterio selettivo “ex ante” (gli studenti di Odontoiatria nel 69,9% dei casi vivono infatti in un contesto socio-economico elevato, avendo genitori che esercitano una professione altamente qualificata, che nel 43,1% dei casi attiene all’ambito medico o dentistico).
Odontoiatria: che fare?
A fronte del quadro evidenziato, appare quindi necessario un ripensamento complessivo della formazione in odontoiatria e dei criteri di accesso alla professione, attraverso la collaborazione tra i diversi soggetti che operano in questo settore: occorre cioè mettere a sistema le competenze e le esperienze del mondo universitario e delle professioni, accanto alle Istituzioni, presidio indispensabile nella produzione di regolamenti e normative che mantengano la tutela della salute del paziente al centro di qualsivoglia intervento.
In un settore in cui la presenza pubblica continua ad essere del tutto marginale (inferiore al 5%), e destinata a rimanerlo, vista la cronica carenza di risorse, la capacità di autogoverno e di valorizzazione delle professionalità e delle competenze, molto al di là della sola prospettiva deontologica, deve rappresentare quindi il faro delle future azioni dei diversi protagonisti del sistema.
fonte: ilsole24ore sanità del 5/12/2014