“Insegnerò la medicina ai miei figli, ai figli del mio maestro e agli allievi legati dal Giuramento medico, ma a nessun altro”. Ecco come nasce la formazione medica, un’arte che sin dalle origini si tramandava da padre in figlio. Fu, infatti, nel IV secolo a.C. che il medico greco Ippocrate, fondatore dell’ars medica antiqua, compilò il cosiddetto “Giuramento di Ippocrate”, giuramento che viene prestato dai nostri medici prima di iniziare la professione. Se da un lato la tradizione attribuisce a Ippocrate la stesura del testo, dall’altro non esistono conferme a tal proposito.
Sin dall’inizio, dunque, la formazione medica, circoscritta al rapporto genitoriale maestro-allievo, cominciò a fare casta, ritagliandosi un suo spazio esclusivo attraverso il distacco da altri professionisti della salute. Con l’avvento delle Università le differenze sociali si accentuarono: accessibili solo ai patrizi, gli studi medici escludevano le classi inferiori. I poteri statali, accollandosi l’onere del mantenimento delle Università, iniziarono a pretendere un funzionamento regolare e allineato, dando vita a fenomeni come l’ereditarietà delle cattedre e l’abbassamento dei livelli di insegnamento. Alle corporazioni autonome, fonti di ricerca e di insegnamento, subentrarono centri di formazione professionale al servizio degli Stati.
Nelle Facoltà di Medicina, l’incompatibilità tra attività fisiche e intellettuali sopravvisse, e il carattere teorico dell’insegnamento medico si accentuò: alla figura del professore si sostituirono quelle dell’accademico e del cortigiano, in una frattura sempre più profonda tra scienza e insegnamento. Fu solo all’indomani della Rivoluzione francese che l’obiettivo assistenza-didattica-ricerca tornò centrale nelle Facoltà mediche, ricongiungendo le componenti teoriche e pratiche.
Quando poi si presentò la necessità di contrastare i ciarlatani e quanti esercitavano abusivamente la professione e, contestualmente, crebbe la domanda di quanti volessero diventare medici, anche i membri delle classi medie e della piccola borghesia cominciarono a iscriversi alle Facoltà mediche, che si andavano facendo, per i tempi, sempre più affollate, con la conseguenza inevitabile di uno scadimento della preparazione. Non solo.
Coloro che non avevano tra i loro antenati un medico o un farmacista e che, quindi, non potevano fare riferimento alla tradizione familiare, necessitavano di una attenta educazione sul piano etico e deontologico. Di qui la nascita dei Galatei medici, che delineavano le caratteristiche di fondo del medico ideale, in un continuo richiamo a etica ed etichetta.
Eppure, con la legge Casati del 1859 e la riforma Gentile del 1923, l’accesso alle Facoltà mediche prevedeva comunque un filtro selettivo: il liceo classico e, poi, anche il liceo scientifico. Dalla legge 910/1969, invece, l’accesso veniva consentito a tutti i possessori di un qualsiasi diploma di maturità, aprendo la strada a un afflusso travolgente di aspiranti medici. Da qui, con le successive varianti, il decreto ministeriale con cui, nel 1987, il ministro Zecchino istituiva il numero chiuso nazionale, limitando poi, per legge, il numero degli studenti. Correva l’anno 1999. Il progetto distruttivo sarebbe stato compiuto dalla Riforma Gelmini. Poi i giorni nostri, con le dichiarazioni del ministro Stefania Giannini di voler eliminare il numero chiuso, sostituendolo con un modello che guarda alla Francia, con una selezione negli anni successivi.
*Liberamente tratto da “Medicina, storia di una selezione” di Donatella Lippi, Storia della Medicina, Università di Firenze, su Il Sole 24 Ore – Sanità del 3 giugno 2014